giovedì 7 ottobre 2021

Sentieri selvaggi (Liber amicorum Mauro della Porta Raffo, 2020)

 

Sentieri selvaggi (Liber amicorum Mauro della Porta Raffo, 2020)

 

C’è stato un tempo, in verità molto lontano, in cui essere uomini aveva un profondo significato.

Qualità considerate – a torto o a ragione – maschili, come il coraggio, erano importanti.

In quel tempo, l’umanità era ancora capace di distinguere l’eroismo e di ammirare gli eroi, persone straordinarie, capaci di compiere generosi atti di coraggio.

Coraggio, cor habeo, virtù oggi banalizzata, svuotata di significato.

Anni di nichilismo, di svilimento della vita umana, di abbruttimento consumistico e di ateismo ci hanno fatto perdere di vista la sacralità della vita, la straordinaria unicità della vita di ciascun essere vivente, il miracolo che fa sì che ogni istante – ogni singolo istante – sia diverso da tutti gli altri.

Oggi si desidera essere come gli altri, uguali ai modelli propagandati dai media, dalla pubblicità, dagli influencer.

“È una malattia.

La gente ha smesso di pensare, di provare emozioni, di interessarsi alle cose; nessuno che si appassioni o creda in qualcosa che non sia la sua piccola, dannata, comoda mediocrità” (Richard Yates).

Si ha paura di essere se stessi.

Forse, è anche per questo che è difficile incontrare un vero artista:

“Il vero artista è uno che crede profondamente in sé stesso, perché è profondamente sé stesso” (Oscar Wilde).

Eppure, ciò che rende ciascuna vita così preziosa è proprio la sua unicità.

Ciascuna vita – finché è vita - è ora e mai più, esattamente come ciascun istante è diverso dall’altro: così è sempre stato e così sempre sarà.

L’eroe non è il suicida che odia la vita e si fa esplodere per guadagnarsi il paradiso. L’eroe ama la vita e se rischia la propria è per aiutare il prossimo.

Spesso, la sua dote principale non è il coraggio, ma la compassione.

Per il cristiano, la carità, la virtù teologale che è amore di Dio e amore del prossimo in quanto creatura di Dio:

“Ama dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore (…) Ama il tuo prossimo come te stesso. Non c’è nessun altro comandamento maggiore di questi” (Marco 12,28-31).

Un uomo saggio ha usato queste parole:

“Je crois que la vie est belle car elle se termine” (Jean d’Ormesson).

Sembra una contraddizione: tutti noi siamo in grado di distinguere l’istante meraviglioso e pensiamo che sia triste che debba essere finito.

Eppure, quell’istante è meraviglioso proprio perché diverso da un istante orribile: senza l’uno, non ci sarebbe l’altro.

Il grande miracolo è la diversità, la sacralità è data dall’unicità irripetibile.

Perpetuum mobile, panta rei, ogni fine è un inizio…

Forse, per chi come me non ha fede e non può credere a un significato trascendente, la vita non andrebbe considerata come un viaggio individuale, ma come un viaggio collettivo della vita stessa – sopra una sfera in movimento tra miliardi di corpi celesti – incominciato nella notte dei tempi in un luogo dell’universo a noi ignoto e destinato a concludersi alla nostra destinazione finale.

Noi esseri umani non siamo che una tra le molteplici forme della vita.

Per noi, romantici cresciuti nel culto della virtù dell’eroismo, la bellezza della vita umana, la sua piena realizzazione, può compiersi in un singolo atto di eroismo.

Tuttavia, siamo in grado di distinguere tra veri e falsi eroi, non ci lasciamo portare fuori strada dalle esagerazioni dei cattivi giornalisti, per i quali chiunque compia il suo lavoro scrupolosamente diventa un eroe.

Nossignori, non è così.

Il nostro modello di eroe è Ethan Edwards (John Wayne) in ‘Sentieri selvaggi’, che per anni insegue i Comanche per riportare a casa la nipote Debbie, rischiando la propria vita.

Noi, forse ingenui, siamo cresciuti sognando la nostra entrata in scena trionfale, l’istante che avrebbe rivelato – a noi stessi e al mondo – che eravamo coraggiosi, capaci di quell’unico gesto di eroismo che solo avrebbe dato un significato alla nostra vita mortale.

Naturalmente, ogni eroe vive quell’attesa come una noia e questa è la sua croce.

Come Giovanni Drogo, il protagonista de ‘Il deserto dei tartari’, il rischio è attendere passivamente, sprecare la vita nell’attesa di qualcosa che potrebbe non giungere mai.

Alla fine di una vita sprecata, senza un atto di eroismo non vi è riscatto possibile: noi non la pensiamo come Dino Buzzati, non ci basterebbe come consolazione il pensiero di morire con dignità.

Noi vorremmo morire martiri per aiutare il prossimo.

No, non siamo passivamente inetti: nell’attesa della nostra occasione, facciamo del nostro meglio per ingannare il tempo e, soprattutto, per migliorarci.

“Poiché il suo corpo è condannato a morte, il suo compito sulla Terra evidentemente deve essere più spirituale: non un totale accaparramento di beni nella vita quotidiana, non la ricerca di modi migliori per ottenere beni materiali e quindi non la spensieratezza con il loro consumo.

La vita deve invece essere il compimento di una riflessione costante e seria in modo che il nostro viaggio nel tempo possa essere soprattutto un'esperienza di crescita morale, per diventare esseri umani migliori” (Aleksandr Solgenitsin).

Così, dopo molti lustri in questo mondo, la nostra unicità si accresce di caratteristiche che entrano a far parte della nostra personalità.

Pur detestando Sartre, devo ammettere che è in parte vero che sia l’esistenza a determinare l’essenza, almeno dopo un lungo percorso.

Soprattutto, non vogliamo smettere di pensare, di provare emozioni, di interessarci alle cose.

I risultati dei nostri sforzi individuali sono – ancora una volta – unici e irripetibili.

Penso a MdPR: chi è straordinariamente colto, per contrappasso è condannato a vivere in un mondo di ignoranti.

Se poi chi è colto (e la sua cultura è il frutto di una curiosità intellettuale a trecentosessanta gradi) ha una memoria prodigiosa…

Beh, non oso pensare che opinione possa avere dei comuni mortali che poco studiano, non tutto capiscono e quasi nulla ricordano.

Oggi, l’umanità è inebetita, costantemente alla ricerca di soddisfare bisogni indotti, senza più valori, senza una vera volontà di cambiamento, sempre con la mente altrove, davanti ai propri schermi, ignorante, indifferente, impassibile rispetto alla quasi totalità dei problemi importanti ma anche rispetto alle effettive esperienze altrui, tanto che uno scrittore del ventesimo secolo descrisse così la vita:

“La vita è movimento.

Un moto, però, circolare (intorno a quel piccolo nucleo che si chiama ‘io’), un moto talmente circoscritto che assomiglia a un piétiner sur place.

Circoscritto dal gran cerchio d’ombra di tutto quello che sfugge alla nostra cognizione, o di cui non c’interessa cognizione.

E non alludo allo scibile, né tantomeno al “mistero dell’universo”, alludo a ciò che rappresenta la realtà spicciola, la più vicina a noi.” (Guido Morselli, Dissipatio H.G.).

Libere elezioni democratiche portano al potere una classe dirigente simile ai propri elettori: terrorizzata dai cambiamenti imposti dalla modernità, ignorante, inesperta.

La parole pronunziate nel 1980 da Isaac Asimov, davvero profetiche, descrivono la situazione:

“Una vena di anti-intellettualismo si è insinuata nei gangli vitali della nostra politica e cultura, alimentata dalla falsa nozione che democrazia significhi ‘la mia ignoranza vale quanto la tua conoscenza’".

In questo teatro, ciascuno di noi recita la sua parte, senza darsi cura di ascoltare la parte di tutti gli altri oppure (peggio!) costretto ad ascoltare le parti dei soliti famosi imbecilli.

Nel mio ‘L’uomo di seta’, ho esortato mia figlia con queste parole:

“Fai tutto questo nella piena consapevolezza che forse non otterrai alcun beneficio: alla fine, tuttavia, non sarà stato inutile perché è nella misura dello sforzo che all’ultimo istante giudicherai la tua vita.

Il risultato, spesso, non dipende da noi.”

No, questo mondo non cambierà in meglio, non assisteremo a un nuovo Rinascimento.

Rassegnati, nell’attesa forse vana della nostra entrata in scena trionfale, continueremo a dedicarci ai nostri passatempi: MdPR scriverà un milione di nuove voci del suo folle e sublime ‘Dizionario Enciclopedico’, imparando nuove nozioni senza mai dimenticare le vecchie.

Ma soprattutto, continuerà a mandare agli amici gli straordinari frutti della sua cultura: ne abbiamo bisogno, sono un benefico conforto.

Per cui, anche se “La vie est belle car elle se termine”, fatti i debiti scongiuri io brindo alla mia amicizia con MdPR augurandogli (e augurandomi) di commentare le elezioni americane almeno fino al 2060.

martedì 5 ottobre 2021

La leggenda di Captain Hook

 

LA LEGGENDA DI CAPTAIN HOOK

Secondo Nanni Svampa, milanese trasferitosi a Portovaltravaglia, la straordinaria vena creativa dei Luinesi sarebbe dovuta a una sotterranea vena magnetica che, partendo dal Monte Verità, lambirebbe la parte settentrionale della “sponda magra” del Lago Maggiore.

 

In questo fazzoletto del Varesotto, capita ancora oggi di ascoltare storie meravigliose, narrate al bar da vecchi giocatori di scopa o di biliardo, in cui realtà e fantasia, sapientemente mescolate per anni, sono ormai inscindibili.

Ne conosco molte divertenti, ma la mia preferita resta quella di Captain Hook.

 

Era il 1977, Dino Risi stava girando La stanza del vescovo, tratto dal romanzo di Piero Chiara. Cinque ragazzi di Portovaltravaglia organizzarono una gita in barca, per andare a spiare la troupe e, se possibile, vedere da vicino la bellissima ventiduenne Ornella Muti. Decisero di partire con il motoscafo più bello del piccolo paese, quello dell’Ing. Alfredo Sonzini, un Riva Florida del 1963. Ne parlarono col figlio Luigi, classe 1942, il quale accettò volentieri. Così, in sei, il numero massimo consentito sul motoscafo, partirono all’inseguimento della Tinca, la barca a vela del protagonista.

 

Giunti a destinazione Luigi, che già aveva avuto flirt con un paio di note attrici, riuscì a farsi fare autografi per tutti e a invitare a cena le truccatrici, nella speranza (vana) di conoscere la Muti. La serata finì in allegria e uno dei ragazzi, che fino a quel giorno era sempre stato oggetto di scherzi a causa della sua gobba, perse la verginità nella camera d’albergo di una trentenne un po’ sovrappeso.

Al mattino, gli amici lo aspettarono al molo. Arrivò insieme a lei, appagata, felice. Lo accolsero con un applauso, dandosi di gomito e preparandosi a sfotterlo, ma lei li zittì:

“Ridete, ridete. Ma sappiate che l’applauso è meritato: io di uomini ho una certa esperienza e questo qui è uno stallone!”.

 

La voce che il gobbo fosse uno stallone non tardò a diffondersi per Portovaltravaglia.

Lui, che dopo la scuola aveva sempre fatto piccoli lavori per guadagnarsi qualche lira, diventò il più richiesto nelle ville. Più che altro, quelle mogli annoiate lo osservavano mentre tagliava l’erba, spostava un vaso pesante o saliva su una scala per potare un vecchio albero, ma nessuna osò spingersi più in là.

 

Poi, verso la fine di giugno, come ogni estate, arrivò in paese la famosa cantante Lena Olnivorna. Bella, spregiudicata, libera, un figlio appena più giovane del gobbo, fino a quel 1977 aveva trascorso il tempo prendendo il sole a bordo piscina, giocando a tennis e a canasta. Quell’anno invece la vita sociale nella sua villa venne ridotta al minimo e nei pomeriggi estivi villeggianti di passaggio udirono distintamente gemiti che non era possibile confondere con esercizi musicali.

 

Alla fine di settembre, seduto sul sedile posteriore della Mercedes 350 SE, il gobbo fu riportato a Milano come il trofeo di uno strano safari. Gli amici, sbalorditi e invidiosi, si aspettavano di vederlo ritornare dopo qualche giorno.

La sera, al bar, qualcuno diceva: “Secondo me domani torna il gobbo” e si aprivano le scommesse.

 

Invece passò l’inverno, alla fine di giugno Lena Olnivorna tornò alla villa, ma del gobbo neanche l’ombra. L’unica persona che sapesse dov’era era la madre, vedova dal lontano 1973, sarda come il suo povero marito, ma lei non diceva nulla. A chi le domandasse come stava suo figlio, immancabilmente rispondeva: “Bene, grazie. E il suo?”.

 

Nell’estate del 1980, Luigi Sonzini era a Saint Tropez. Seduto al bar Sénéquier, sorseggiava un Kir Royal osservando distrattamente gli yacht ormeggiati lì davanti. A un certo punto, da un motorino pieghevole scese un ragazzone un po’ gobbo, con un paio di bermuda beige e una camicia di lino blu: il gobbo!

Lo chiamò col suo nome, che in paese nessuno – a parte la madre - aveva mai usato: “Gavino!”.

Si voltò, si videro e si salutarono calorosamente. “Che ci fai a Saint Tropez?”.

“Sono in crociera sullo yacht di Sissi Ramazzotti, la stilista, e lei?”.

“Non darmi del lei, mi offendo! Sono qui in albergo, resto un paio di settimane. Ma raccontami, vivi a Milano, cosa fai?”.

“Sì. Faccio lo stilista, disegno la collezione maschile della Ramazzotti”.

“Ma pensa, non sapevo che sapessi disegnare”.

“No, non so disegnare. Vado a New York, compro qualcosa nei grandi magazzini tipo Neiman Marcus e lo copio”.

Risero. “Vuoi salire in barca? Ti presento Sissi e ci beviamo un aperitivo”.

“Grazie, con piacere”.

Così si ritrovarono seduti nel pozzetto di uno yacht di 90 piedi, osservati con invidia dai passanti.

Sissi, per rompere il ghiaccio, domandò: “Come ha conosciuto Kevin?”.

Sonzini, che non era uno stupido, trattenne una risata e raccontò una bugia: “Sul set di un film”.

E lei, rivolta a Gavino: “Kevin, non mi hai mai detto di essere stato un attore…”.

“Beh, c’è poco da dire. Ero soltanto una comparsa”.

“E lei, Luigi?”.

Lui si schernì: “Io volevo l’autografo di Ornella Muti”.

Cenarono insieme, in barca, serviti da un maggiordomo in livrea. Poi Luigi, che non vedeva l’ora di telefonare a qualche amico di Portovaltravaglia per raccontargli l’incredibile storia, tornò da solo in albergo.

 

Così la storia del gobbo divenne una leggenda. Ci fu chi disse di averlo incontrato a Roma, chi di averlo scorto al TG1, seduto in prima fila alle sfilate di Giorgio Armani, chi giurò che era l’amante della figlia del più noto industriale dell’epoca.

 

Gli anni passarono. Portovaltravaglia, a dieci chilometri dal confine, è un paese di frontalieri. Un pomeriggio, un compagno di classe del gobbo, ora saldatore a Pregassona, si fermò a Fornasette a fare benzina. Alla cassa, sul bancone, si ritrovò davanti un settimanale in tedesco con – proprio in copertina – la fotografia della principessa Stéphanie di Monaco, appena divorziata da Daniel Ducruet. Incredulo, inforcò gli occhiali da presbite. Accanto alla principessa, sorridente, c’era il gobbo! Tutto il paese si passò, di mano in mano, quella incredibile fotografia. La sera, al bar, gli amici di sempre, oggi padri di famiglia di mezz’età, si vantavano di aver conosciuto “il futuro principe” e restarono delusi quando Stéphanie si risposò con Adans Lopez Peres!

 

Intanto, la vecchia madre aveva lasciato Portovaltravaglia già da molti anni: si diceva che fosse tornata in Sardegna da sua sorella. Eppure, l’appartamento proprio sopra la farmacia non era stato venduto.

 

Una mattina di giugno, circa dieci anni fa, Gavino tornò a casa.

Arrivò in treno, alla piccola stazione di Portovaltravaglia, con una pesante valigia di Vuitton e camminò per tutta via Roma. In trentatré anni, il paese era cambiato. Tutti i vecchi negozi erano chiusi, eccetto Stornelli, il ferramenta. Dopo l’apertura del nuovo supermercato, avevano chiuso panetteria, latteria, macelleria, tintoria, profumeria e il vecchio negozio di giocattoli.

Fu proprio Stornelli a dare la notizia. Così, quella sera, un manipolo di vecchi amici si ritrovò al bar a commentare l’incredibile notizia, ma nessuno trovò il coraggio di andare fino alla farmacia, a suonare il citofono del gobbo.

 

Nei giorni successivi, lui uscì raramente, soltanto per andare al supermercato. Elegante, perfettamente pettinato (aveva ancora folti capelli grigi), ogni tanto scambiava due parole con la cassiera o accennava un saluto quando incontrava un viso famigliare, ma al bar non lo si vide mai.

“E’ diventato uno stronzo, proprio uno stronzo”, commentavano gli ex compagni di scuola. “Chissà chi si crede di essere”. “Kevin un cazzo, Gavino è stato battezzato e Gavino verrà seppellito, quel gobbo di merda”. “Altro che stilista, quello ha messo la minchia a reddito!”.

Eppure, sotto sotto, erano fieri di lui.

 

Un pomeriggio, alla cassa del supermercato, una signora olandese cercava di domandare alla cassiera dove si trovasse il veleno per topi. Gavino era in coda. In un perfetto inglese fece da traduttore. Il resto fa parte della leggenda: la invitò a cena a Luino, dormì nella villa di lei e, tre giorni più tardi, abitavano insieme. Per il suo compleanno, lei gli regalò una Jaguar e a quel punto fu evidente che la loro relazione era una cosa seria.

 

Con la Jaguar, Gavino andava spesso a Luino, al caffè Clerici e si sedeva da solo a bere un bianco. Nessuno sa cosa gli passasse per la testa, ma amava quel luogo e restava anche un’ora a guardare le barche nel vecchio porticciolo. Proprio lì, una sera di ottobre, se lo ritrovò davanti uno dei vecchi amici di un tempo: “Gavino, ciao, mi riconosci?”.

“Certamente, anche se sei un po’ ingrassato!”.

Scherzarono, ricordarono un viaggio in motoscafo di trentatré anni prima, si lasciarono promettendo di rivedersi dal Vanni, a Portovaltravaglia.

 

Finalmente, una sera di novembre, la Jaguar passò piano davanti al bar del Vanni. Gavino scese, in jeans, maglione a collo alto e stivali da cow-boy. Unirono due tavoli e lui raccontò per mezz’ora dei suoi viaggi a New York, della sua società ora fallita, dei quattro figli avuti da tre mogli diverse e di molte altre incredibili avventure.

Venne interrotto: “Gavino, raccontaci delle donne! Il resto non ci interessa. Quante ne hai avute?”.

Lui sorrise, poi sornione sussurrò: “Trecento, forse quattrocento”.

“Ciumbia! Aveva ragione la truccatrice cicciottella, te la ricordi?”.

“Forza, rivelaci il tuo segreto: quanto è lungo?”.

“No, non è tanto quello”. Fece una pausa, poi: “Non ho soltanto la gobba sulla schiena, ma anche…” e indicò la patta dei jeans. “A New York, una delle mie amanti mi aveva soprannominato Captain Hook, Capitan Uncino!”.

Risate. Lui proseguì: “Io me ne vergognavo. Invece la curvatura alle donne piace, le fa impazzire!”.

Tutti risero fragorosamente, mimando con ampi gesti dell’ombrello l’osceno segreto.

 

A Natale, chiuse la casa sopra la farmacia e se ne andò a vivere ad Amsterdam.

La villa della signora olandese è stata venduta.

Non è più tornato, nessuno sa se tornerà.

Eppure, dieci anni più tardi, dopo un paio di bicchieri, capita che qualcuno racconti ancora oggi la sua storia, la storia di Captain Hook.

sabato 28 marzo 2020

Il suicidio dell'Occidente

Noi non abbiamo la possibilità di realizzare questo o quello ma la libertà di fare ciò che è necessario o nulla (Oswald Spengler).

IL SUICIDIO DELL'OCCIDENTE

Io sono svedese (sarebbe bello!). Il direttore della Sanità pubblica svedese, Johan Carlson, ha difeso il suo sorprendente approccio al coronavirus affermando che: “Non si possono varare misure draconiane che hanno un impatto limitato sull'epidemia ma abbattono le funzioni sociali". E’ esattamente quello che penso io. L’avevo accennato in un post del 10 marzo poi rimosso a causa della critica di un’amica che lavora in ospedale, per rispetto verso di lei e tutto il personale sanitario. Ora, mi sono già scusato per quel post e se qualcuno ci resterà male per questo e’ libero di criticarmi, ma io resto dell’idea che la Svezia abbia ragione e tutti gli altri torto. Ci saranno più o meno morti, in Svezia? Stiamo a vedere. Di certo tra sei mesi ci sara’ ancora - per i superstiti - uno stato sociale modello, servizi eccellenti, una qualità’ della vita invidiabile. Tutte cose che noi - col nobile proposito di salvare vite umane - perderemo. Il fatto e’ che un conto sono le misure draconiane applicate dai militari  a Wuhan in uno stato dove milioni (si dice 200) di cittadini sono tracciati perché’ considerati socialmente pericolosi e la rete (che presto realizzeranno qui da noi - il famoso 5G) e’ in grado di controllare l’intera popolazione come neppure Orwell avrebbe mai immaginato, un altro conto e’ questa chiusura all’italiana, che per ora non sembra funzionare contro l’epidemia ma di sicuro ha spezzato l’economia e lascerà’ milioni di poveri, un paese allo stremo con intere famiglie senza un soldo e disoccupati in casa, uno scontro con l’Europa dall’esito quasi scontato: o uscita o tutela da parte di una Troika alla greca. Io capisco che la voce del padrone Gruber, Fazio e Gramellini difenda le scelte di Giuseppi e Zingaretti, ma mi appello al diritto (esercitabile fino all’arrivo del 5G cinese) di esprimere il mio dissenso.
Questo sara’ ricordato come il suicidio dell’Occidente. Tutti coloro che tanto disprezzavano la modernità e che sognavano un regresso alla vita bucolica (idealizzata) dei bei tempi che furono, tutti  gli apologeti del letame come Corona oggi sperano che da questa crisi sbocci un fiore: io, come i milioni di cittadini del Sud del mondo che c’invidiano la nostra modernità’ e che sono disposti a rischiare la vita per vivere come noi, sono disposto a rischiare la mia per il benessere materiale delle mie figlie. Cardiopatico, un ictus, un’ischemia cerebrale sono un soggetto a rischio e so quello che scrivo.

mercoledì 25 marzo 2020

Bella ciao

ALFREDO TOCCHI, BELLA CIAO
Se tutti urlano bianco
Lui solo grida nero
Per mantenere vivo
Il libero pensiero
Questa mattina, mi son svegliato
“O bella ciao”, ho detto a mia figlia (noi Tocchi siamo di origini toscane),
questa mattina, 24 marzo 2020, mi son svegliato e sono sceso con il can.
In pantofole, sacchettino per la cacca in mano, ho aperto il cancello
e ho trovato una FIAT dei carabinieri: “Lei dove va?”
“Esco col cane.”
“Ha l’autocertificazione?”
“No.”
“Allora non può uscire.”
Il cane tira verso il palo, a tre metri di distanza: “Gli faccio fare la pipì e torno dentro.”
Faccio un passo, ma l’appuntato si è accigliato: “Se vuole restare in strada, deve compilare l’autocertificazione.”
“Ma scusi, per certificare cosa? Non vede che sono in pantofole?”
“Non faccia lo spiritoso.”
“No, ma non capisco cosa devo autocertificare.”
“Di non avere il virus”
“Ma come faccio a saperlo, se poi dichiaro il falso, cosa mi succede?”
“Le domande le facciamo noi, favorisca i documenti.”
“Non li ho presi, devo ancora farmi la doccia.”
“Abita qui?”
“Sì.”
“Non l’ho mai vista.”
“E’ la casa dei miei bisnonni, la via porta il nome di un cugino dei miei genitori morto partigiano, siamo qui da più di cent’anni.” Non sto a spiegargli come sia possibile che il povero Giorgio Borgato fosse cugino sia di mia madre che di mio padre, sarebbe complicato e imbarazzante giustificare la simpatica bizzarria famigliare di trovare il coniuge attraversando la via e sposando un parente: un esempio di pigrizia nella ricerca del partner (non so se attraversassero la strada in pantofole).
“Vada a prendere i documenti.”
“Ciabattando salgo le scale, prendo il portafoglio, do un bacio in fronte a mia moglie: “O bella ciao!” e scendo trainato dal cane.
“Eccoli.”
Dopo un rapido esame, l’accusa: “Lei risiede a Milano.”
“Sì certo, ma sono qui da venerdì 6 marzo.”
“Per quale motivo?”
“I miei genitori hanno più di ottant’anni. Siamo venuti per il fine settimana e siamo rimasti qui.”
“E chi altro abita in questa casa?”
“Mia moglie e mia figlia piccola, di quattro anni.”
Mi squadra: “E lei ha genitori così anziani e una figlia così piccola?”
“E’ figlia della mia seconda moglie…”
“Non dovreste essere qui. Tra l’altro, come hanno scritto tutti i giornali, qui non avete il medico di base.”
Inizio a essere nervoso. Il cane tira, io sono un avvocato di 57 anni che deve giustificarsi con un ragazzino che vive il suo attimo di gloria: fare una denunzia, la prima in paese, contro un milanese. Gioco una carta disperata, quella di sdrammatizzare: “Senta, se vuole torno dentro. Le prometto che la prossima volta compilerò l’autocertificazione.”
“No, voi dovete ritornare a casa, a Milano.”
“Persino i delinquenti hanno il diritto di scegliersi dove scontare la pena della detenzione domiciliare.”
“Le ho già detto di non fare dello spirito.”
Ho il sangue alla testa, fisso negli occhi questo giovane eroe di una guerra senza seconde linee, combattuta contro un micidiale nemico invisibile, questo moderno martire al quale il sindaco dedicherà una via, magari questa stessa via già dedicata a un giovane morto per la libertà, ma non dico nulla.
Lascio libero il cane - almeno lui - faccio un passo indietro poggiando le pantofole sulla soglia del cancello e sussurro: “Così va bene?”
“No, non va bene.”
Sulla mia testa ronza un drone. Spia la mia casa… tanto non è la mia residenza.
Non basta scrivere: “Andrà tutto bene” perché le cose vadano bene: questa e’ una nuova forma di superstizione laica che si aggiunge a quella dei credenti. Queste giornate non saranno ricordate come il tempo della nostra vittoria, ma quello della nostra disfatta. La cura e’ stata mille volte più devastante della malattia e presto sara’ chiaro a tutti. Ma è già evidente che nessuno farà autocritica, nemmeno chi ha trasformato un’emergenza sanitaria in un grandioso esperimento sociale o, se vogliamo, una prova tecnica di dittatura della paura. Forse è giusto così: il punto è che l'uomo continua a illudersi di essere simile a un Dio e poi si comporta ... da uomo. Non si assume le responsabilità del proprio impatto devastante sul pianeta (quasi sette miliardi e mezzo di esseri umani sono il problema, non la modernità, accusata dai cattivi scrittori, dai nostalgici della stalla, dai retorici apologeti del letame!).

Una mattina mi son svegliato e ho scoperto che ero stato condannato a una pena detentiva da uno stato di polizia guidato dal mio collega avvocato Giuseppi, dove una giustizia sommaria viene amministrata a discrezione dell’ultimo appuntato dei carabinieri.
Una mattina mi son svegliato e mi avevano privato dei miei diritti: la libertà di movimento, la libertà di esercitare la mia professione, la libertà di scontare la pena al mio domicilio eletto, il diritto alla privacy.
Una mattina mi son svegliato e tutti gli organi d’informazione diffondevano false notizie sul numero dei contagiati - che non conoscono e con tutta probabilità e’ prossimo ai 500.000 - per non farci sapere che la percentuale dei morti e’ molto più bassa e che il vero problema che ha aggravato nel nostro paese questa tragedia e’ che vent’anni di tagli alla sanità ci hanno privato di più di meta’ dei letti nelle terapie intensive. Tutti gridavano bianco. Io, assumendomene tutte le inevitabili conseguenze, ho gridato nero. Nel reparto di terapia intensiva del Policlinico di Milano mi sono risvegliato dal coma, e’ grazie all’eccellente lavoro fatto da medici e infermieri se ho ancora voce!
Una mattina mi son svegliato e tutti i sacrifici che avevo fatto per contribuire al benessere della mia famiglia e al risanamento del bilancio di uno Stato gestito da irresponsabili bancarottieri sono andati in fumo.
Quella mattina, l’Italia – un paese libero - gioiva per il permesso concesso dalla Signora von der Leyen di fare nuovo debito, mentre la Signora Lagarde (dopo averci avvertito che lo spread sono fatti nostri, per poi smentire) impegnava la BCE ad acquistare i nostri titoli di Stato, in cambio di un rendimento che varierà in base allo spread, che è in mano alla speculazione e il Signor Klaus Regling tuonava (per poi smentire) che Italia e Spagna devono mettersi in ginocchio, davanti a lui che e’ l’Amministratore del Meccanismo Europeo di Stabilita’ (MES), se vorranno aiuto.
Una mattina, in pantofole e senza documenti in tasca, ho dato un’occhiata al cancello del mio vicino e ho visto un lenzuolo con scritto: “Andrà tutto bene” sotto il tricolore.
Quella mattina, credetemi, è stata l’inizio di una nuova consapevolezza: ero l’ultimo liberale, ora sono anarchico.

mercoledì 18 marzo 2020

Coronavirus

Leggo che il virus è una delle conseguenze negative della modernità, trae la sua origine nella distruzione dell'habitat naturale e nei contatti tra fauna selvatica e esseri umani. Sembra tutto vero... Eppure scritto così è ambiguo. Se per modernità l'autore intendeva "i nostri tempi", posso essere d'accordo. Tuttavia, dal contesto è evidente che il significato di modernità sia "lo sviluppo economico". Ci sono miriadi di persone - e migliaia di pessimi e arcinoti e pluripremiati scrittori - che ci propinano la loro miope agiografia del passato. Sono i cantori della montagna, gli affezionati alla stalla, gli escrementizi nostalgici del letame. Il problema (e non parlo soltanto del virus, ma del disastro ecologico sotto gli occhi di tutti noi), è la sovrappopolazione. 7 miliardi e 300 milioni di esseri umani sono il virus che distrugge la terra. La modernità ha consentito questa esponenziale proliferazione, ma si può ipotizzare un meraviglioso mondo moderno senza la distruzione del nostro unico pianeta: basterebbe tornare ad una popolazione quale quella del 1931. Qualche numero: quando nacque Cristo, la popolazione del nostro pianeta era di duecentocinquanta milioni. Sedici secoli dopo, quando i Padri Pellegrini sbarcarono in America, le creature umane superavano di poco i cinquecento milioni. Il giorno della firma della Dichiarazione di Indipendenza americana, la popolazione mondiale superava i settecento milioni. Nel 1931, sfiorava i due miliardi. Oggi, 7 miliardi e 300 milioni. Questa progressione è insostenibile. INSOSTENIBILE!
E la modernità non è la causa del virus, la soluzione non è quella degli scrittori di montagna, non è il ritorno alle stalle e alla vita semplice dei nostri avi. La soluzione è il controllo rigoroso delle nascite. Quindi, per favore, oggi che siamo tutti chiusi in casa, cerchiamo di usare il preservativo.

martedì 3 marzo 2020

KURT VONNEGUT, Mattatoio n. 5

Qualche tempo fa, ho commentato Dio la benedica, Mr. Rosewater (o Perle ai porci), di Kurt Vonnegut. Non trovo più il commento, dunque mi ripeto: amo incondizionatamente Richard Yates, l'autore di Revolutionary road e della raccolta di racconti Undici solitudini. Molti anni fa, lessi per caso - non so dove - che Kurt Vonnegut considerava i racconti di Yates capolavori... Così mi venne voglia di leggere Vonnegut, progetto sempre rinviato per dare spazio alla lettura di contemporanei italiani di successo. Bene, stanco di leggere bambinate inutili (non farò nomi), piagnistei di onanisti (ho fatto i nomi più volte, oggi no) e vera merda tipo La vita oscena di Aldo Nove, ho incominciato a leggere Kurt Vonnegut. Cosa rende grande uno scrittore? Risponde Richard Yates: "Le finestre", le illuminazioni sul mondo o meglio le illuminazioni provocate allo scrittore dall'osservazione del mondo e tradotte in frasi, paragrafi, che aiutano il lettore a comprendere verità a volte metafisiche. Kurt Vonnegut è di un'intelligenza straordinaria, non usa il sarcasmo come Céline ma il grottesco. In questo è un maestro. La descrizione al contrario (come un film che inizi con l'ultimo fotogramma e finisca col primo) del bombardamento di Dresda mi ha fatto piangere. Pagina 75 dell'edizione economica Feltrinelli, per intenderci. Qui impazza il neorealismo del cazzo, la merda del neomelodico, la nostalgia di Orietta Berti. Un colpo di pistola nella notte non è servito a niente: il gusto del pubblico italiano è rimasto bestiale. «Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda Io tu e le rose in finale e una commissione che seleziona La rivoluzione. Spero serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi (Tenco)». No, non aggiungo altro. Quello che penso delle maestrine che lavorano operose con la matita rossa e blu nelle principali case editrici lo tengo per me. Aldo Nove è il braccio (?) destro di Elisabetta Sgarbi, io un rancoroso fallito di 57 anni. Così va la vita. In quest'ottica, la preghiera citata da Vonnegut mi appare sublime: Dio mi conceda / la serenità di accettare / le cose che non posso cambiare, / il coraggio / di cambiare quelle che posso / e la saggezza / di comprendere sempre / la differenza. (Preghiera della serenità (Serenity Prayer), scritta nel XX secolo dal teologo protestante tedesco-statunitense Reinhold Niebuhr).

lunedì 13 gennaio 2020

C.V.

ALFREDO TOCCHI (alfredo.tocchi@gmail.com)
Nato a Milano il 25 giugno 1962, mi sono laureato in giurisprudenza all’Università Statale di Milano nel 1986 e ho conseguito un Master of laws alla University of Alberta di Edmonton nel 1988. Sono avvocato dal 1991. Sono stato socio dello Studio Carnelutti – Milano.
Nel 2008 ho rischiato di morire a causa di un’ischemia cerebrale. Mi sono risvegliato dal coma e ho deciso di diventare scrittore. Due anni e un’operazione al cuore più tardi, ho incominciato a scrivere.
Nel 2014, il mio romanzo d'esordio Confessioni di un pazzo di raro talento (Ed. dEste) è stato numero 1 nella classifica assoluta di Amazon (eBook gratuiti) ed è poi salito fino al numero 7 nella classifica assoluta (non di genere) eBook a pagamento, e nel frattempo è stato numero 1 su Mazy per più di quattro mesi (documento 1).
Il video di presentazione su Youtube è stato visto da più di 2000 persone, poi è stato rimosso su indicazione di Giuseppe Scaraffia e infine ripristinato (azzerando le visualizzazioni):
Confessioni di un pazzo di raro talento è stato recensito da David Frati per Mangialibri:
Sempre David Frati ha poi voluto intervistarmi:
La Professoressa Giovanna Romanelli – Presidentessa della giuria del Premio Cesare Pavese, ha recensito Confessioni di un pazzo di raro talento su Le colline di Pavese (documento 2).
Confessioni di un pazzo di raro talento è stato recensito anche da Cristina Biolcati per Nuove Pagine:
Sempre Nuove Pagine (Maria Ausilia Gulino) mi ha poi intervistato:
Infine, Confessioni di un pazzo di raro talento è stato recensito da Sabrina Minetti per Mondo Rosa Shokking:
Col mio secondo romanzo (Dimmelo domani, inedito) ho vinto il Premio Cesare Pavese Sezione Narrativa Inedita nel 2012 e sono stato finalista al Premio Guido Morselli e al Premio Mondoscrittura.
Ho ricevuto menzioni di merito a Giallostresa per il racconto Una seconda chance e al Premio Cesare Pavese per la raccolta di racconti La principessa del carnevale di Rio (Aracne Narrativa), recensita recensito da David Frati e da Cristina Biolcati per Mangialibri e Nuove Pagine:
Il mio terzo romanzo Husserl e le notti di Milano (pubblicato da Zerounoundici col titolo Undici al 17) è stato recensito da David Frati e da Cristina Biolcati per Mangialibri e Nuove Pagine:
Un mio contributo è stato pubblicato sul volume dedicato al Premio Cesare Pavese dalla Professoressa Giovanna Romanelli (Cesare Pavese, La storia di un premio, Ed. Gangemi).
Un mio racconto è stato pubblicato nella raccolta Le prime volte, Ed. Mondoscrittura:
Un altro è stato postato su Nuove Pagine:
Vari racconti sono stati postati su Varese può e Dissensi e discordanze, ad esempio:
Una mia breve biografia, corredata di una fotografia insieme al mio cane Wigo, compare sul volume Italian portraits (Ed. Skira).

Ho schede di valutazione estremamente positive redatte da Mondoscrittura di Tra un anno sarò felice (documento 3 - Tra un anno sarò felice e Confessioni di un pazzo di raro talento sono lo stesso romanzo), e dall'Agenzia Malatesta (documento 4) dell'ultimo romanzo L'uomo di seta.